Hobbes, lo stato di natura e la guerra

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Mentre i venti di guerra soffiano da ogni parte e in tutte le direzioni, ci si chiede: ma la guerra è davvero “la levatrice della storia” e, pertanto, inevitabile? La risposta potrebbe essere ambivalente. Perché, se da un lato è vero che gli uomini aspirano alla tranquillità e alla pace, sotto altri aspetti non riescono a fare a meno di combattersi e uccidersi. Gaston Bouthoul, sociologo francese, in “L’uomo che uccide”, oltre all’imbecillità della guerra, sosteneva che essa è “un infanticidio differito”. Quando l’umanità non riesce a sostenere il peso delle generazioni giovani, non potendole eliminare direttamente, farebbe ricorso a un boia considerato impersonale, ovvero alla guerra.
Si sa anche che Eraclito ed Hegel erano sostenitori della naturalezza e necessità dei conflitti. Ma nessuno come Hobbes (1588 – 1689) è andato alle radici, cioè alla scoperta delle cause della più grande delle perversioni umane. A differenza di Aristotele e di coloro i quali, come Tommaso d’Aquino, Locke, Rousseau, erano convinti della bontà originaria dell’uomo, essere sociale per natura, la condizione umana, secondo il filosofo inglese, sarebbe radicata nell’egoismo e nell’avidità che rendebbero l’uomo “homo homini lupus”.
Nello “stato di natura” a-razionale, ognuno pensa a sé, alla soddisfazione dei propri bisogni a discapito di quelli degli altri, teso ad affermarli anche a costo della vita altrui e non vi sono leggi che pongano un freno alla propria espansione e all’assassinio. Pertanto, secondo Hobbes, esso è un “bellum omnium contra omnes”, una guerra di tutti contro tutti, in quanto tutti vogliono affermare la superiorità del proprio sé e del gruppo di appartenenza.
Dallo stato di natura si esce soltanto attraverso un patto che limita la libertà di tutti, nel senso che indica ciò che è possibile e ciò che è non è lecito fare. È lo stato delle leggi e delle costituzioni a porre un limite ai conflitti interni ed esterni. Se fosse così, però, sarebbe tutto pacifico, cioè produttore di pace.
Ma la realtà è un pò diversa. Perché, contrariamente a quanto si potrebbe immaginare, lo stato di natura non è alle nostre spalle, in una fantomatica preistoria. Esso non è mai del tutto superato. È presente nelle nostre società quando le leggi non vengono rispettate e vi si può regredire in ogni momento della vita individuale e collettiva, così come nei rapporti interni ad uno stato e nelle relazioni tra gli stati, per affermare, contro ogni legge, la propria supremazia (mors tua vita mea) e i propri interessi (sono questi che muovono la storia, secondo Marx, e non le ideologie e le credenze religiose che fanno solo da supporto o da infantile e irrazionale giustificazione). Si pensi, da noi, alle mafie, alla circolazione dei rifiuti tossici. Si pensi al petrolio e alle fonti energetiche tradizionali. Tutto ruota in questo tempo intorno ad esse, dal terrorismo ai conflitti nell’area mediorentale. Pertanto, non è per ordine divino o in nome di qualche alta “visione del mondo” che avvengono i crimini e i conflitti.
Sembrerebbe che non vi sia via d’uscita dal sempre risorgente “stato di natura”. A meno che un concerto tra gli stati non li induca a cedere qualcosa del loro egoismo e a spendere buona parte delle risorse di questo mondo piccolissimo – armato fino ai denti con gli strumenti di distruzione di massa – per una educazione seria e profonda e per costruire solidi deterrenti alle guerre, fino a ritenerle un tabù inviolabile, portando alla ragione la convinzione che nell’era delle armi nucleari non è possibile salvarsi da soli. E al superato adagio “mors tua vita mea”, sostituire con urgenza l’altro “vita tua vita mea”, se non si vuole assumere la responsabilità di ridurre la terra a un mucchio di cenere per tutti.

 

di Domenico Casa

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