Per una civiltà della tavola

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Se non ci siamo, poco ci manca! Il riferimento è all’overdose di programmi dedicati alla cucina, di esibizioni in tutte le salse di chef non si sa quanto veramente bravi e stellati, di qualunque età e razza, dei loro piatti sempre più variopinti fino a diventare quasi improbabili, belli a guardarsi forse non a gustarne sapori che non si riescono ad apprezzare attraverso la Tv dove si susseguono, inseguendosi l’un dopo l’altro, concorsi, gare, competizioni ad esclusivo uso e consumo mediatico.
Eppure siamo nell’anno dell’Expo milanese dedicata all’alimentazione ed è scontato che, dall’inizio alla fine dell’evento, si raggiungerà l’acme di sovraesposizione mediatica per il cibo, per i piatti e per i cuochi che li confezionano.
La saturazione d’interesse, oltre che di curiosità, è perciò dietro l’angolo col rischio di un default del settore che potrebbe causare effetti devastanti sul circus della bontà italiana a tavola.
Per chi si occupa di formazione e avviamento al lavoro in questo settore suonare un campanello d’allarme è quasi un obbligo per scongiurare che, quando sarà crisi, non ci sia qualcuno che lamenti: “perché non ci avete fermati un attimo prima che il giocattolo si rompesse?”.
Come tutti i fenomeni di tendenza, anche quello gastronomico deve fare i conti con le regole di un mercato abituato a consumare, tutto e fino all’ultimo, qualunque cosa sia in grado di generare business.
E la cucina sicuramente è un business, ma non per tutti, forse soltanto per i pochi che riescono a gestire questo star system spremendolo al massimo senza preoccuparsi delle conseguenze che ne derivano.
Quali? La delusione di centinaia di migliaia di giovani che, illusi di aver scoperto la strada più agevole per abbinare studio e lavoro e diventare primi attori di questo universo, rischiano davvero di ritrovarsi con in mano un pugno di mosche e, quindi, senza né arte né parte. Soprattutto se l’arte non l’acquisiscono attraverso un graduale, lungo e complesso processo di sedimentazione di conoscenze ed esperienze in grado di generare eccellenza vera, autentica, abilità ispirata, vocazione genuina e passione infinita.
Per questo formarsi significa conoscere, studiare, imparare, provare, sperimentare, confrontarsi, maturare per arrivare a conseguire l’obiettivo di diventare un attore della “civiltà della tavola” che è e resta innanzitutto un’espressione culturale dell’essere italiani e di saper trasferire, attraverso i moderni linguaggi, sensazioni e sapori, sentimenti e qualità. Cioè quello che i grandi chef, attraverso lunghi, faticosi e tortuosi percorsi lavorativi oltre che formativi sono riusciti a trasformare nell’arte della buona tavola e diventarne gli ambasciatori nel mondo intero.
Cucinare è un atto d’amore perché significa innanzitutto nutrire, alimentare sé stessi e gli altri, a cominciare dalla nascita quando il nostro primo e unico piatto è il latte che sgorga dal seno materno, atto d’amore puro che ci accompagnerà in tutte le stagioni della crescita richiedendoci la graduale assunzione di quella consapevolezza alimentare che diventa patrimonio di ciascuno in età matura, quando avremo superato anche diffidenze e pregiudizi che ci impediscono di apprezzare fino in fondo un sapore, un alimento! Allora studiamo senza soste, per diventare persone sempre più in gamba e che amano nutrire gli altri. Solo così possiamo salvaguardare il valore di una professione che, nella stragrande maggioranza dei casi, nasce, cresce, si sviluppa e si esaurisce dentro una cucina, al calore delle fiamme e senza i colori del palcoscenico, ma che rappresenta l’asse portante della nostra buona tavola italiana.

 

di Vincenzo Califano

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