Medicina narrativa: per andare “oltre” i quadri clinici

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La Medicina di oggi punta ad essere sempre più scientifica, logica, precisa, tecnologica, rigorosa, basata sull’evidenza.
Questo è certamente un progresso, perché minimizza i rischi di errore. Tuttavia, si ha l’impressione di perdere qualcosa nel rapporto medico-paziente. è forte la sensazione che il rapporto di cura sia anche “altro”. E cioè qualcosa di estremamente personale, individuale. Qualcosa che sfugge al rigore scientifico. Qualcosa che si debba “raccontare”. Per conoscersi, capirsi, intendersi. Nella vita di tutti i giorni, utilizziamo la nostra capacità narrativa per raccontarci agli altri, per dire qualcosa di noi, del nostro passato, ma anche delle nostre aspettative future. Allo stesso modo, il paziente ha bisogno di “raccontare” al medico la propria “storia di malattia”, e questa è la descrizione più vera e completa del suo malessere. Più importante, per lui, del mero elenco di sintomi presentati, esami eseguiti e medicine assunte.
Perciò, proprio oggi che la Medicina ha raggiunto straordinari traguardi di sviluppo tecnologico e il concetto di medicina basata sulle evidenze è ormai molto diffuso, si sente forte l’esigenza di recuperare il rapporto medico-paziente, dove la narrazione della patologia del paziente al medico è considerata al pari dei segni e dei sintomi clinici della malattia stessa. La Medicina Narrativa (NBM, Narrative Based Medicine, in contrasto alla EBM, Evidence Based Medicine) si riferisce non solo al vissuto del paziente ma anche ai vissuti del medico, e dalla loro relazione e fusione può nascere una cosa bellissima, l’”empatia”, il riuscire a sentire quello che avverte l’altro. La Medicina attuale riscopre dunque la necessità di promuovere lo sviluppo della capacità narrativa in chi soffre, ma anche in chi lavora giornalmente con tale sofferenza, favorendo il reciproco incontro. Poco diffusa ma timidamente affacciatasi da alcuni anni anche in Italia, la Medicina narrativa si concentra sul ruolo relazionale e terapeutico del racconto dell’esperienza di malattia da parte del paziente e nella condivisione dell’esperienza, attraverso la narrazione, con il medico che lo cura. L’elaborazione del vissuto e la comunicazione della propria esperienza permette al paziente di riflettere sulla propria condizione e intravederne un senso, il che gli permette di accettarla più facilmente e viverla in una prospettiva meno negativa. Inoltre, la narrazione contribuisce a migliorare il rapporto medico-paziente, a costruire un canale comunicativo privilegiato che aiuta la relazione terapeutica e restituisce al malato la propria dignità di persona che va “accolta” e ascoltata, non soltanto esaminata dal punto di vista clinico.
Dice Arthur W. Frank: “Ascoltare una storia di malattia non è un atto terapeutico, ma è dare dignità a quella voce e onorarla”.
L’ascolto della narrazione del paziente permette inoltre allo specialista di collocare e comprendere le persone nel proprio specifico contesto, mettendo a fuoco bisogni e corrette strategie di intervento. Nelle relazioni di cura, inserire la sofferenza in racconti reali le fa acquisire un senso preciso, la rende condivisibile e la trasforma in risorsa. Le esperienze di malattia sono sempre parte di un ‘percorso di vita’: raccoglierle e confrontarle è doveroso per condividere un progetto di cura. Mettersi in ascolto di storie significa costruire percorsi di partecipazione.
Tuttavia, raccogliere e portare alla luce un’esperienza non è facile, richiede tempi appropriati e riflessioni adeguate. A volte il paziente può aver bisogno di esprimersi attraverso una formula artistica: poesie, testi, pitture, disegni, tutte espressioni che raccontano stati d’animo, dubbi, paure, aspettative, attese, domande, progetti di vita, dolori, delusioni, frustrazioni: insomma, emozioni. L’espressione artistica scioglie l’irrequietezza, dà sicurezza, fermezza, stabilità alla nostra anima ondeggiante nei flutti delle emozioni. Scrivere, dipingere, comporre è in fondo un modo per prendere parola, raccontarsi, con calma, al di fuori della fretta di un’intervista, o dagli schemi rigidi di un questionario. Si scrive per comunicare un vissuto, per raggiungere quanti non ci conoscono o non ci capiscono nell’ordinarietà della comunicazione spicciola, per ‘uscire fuori’ da se stessi, dal proprio dolore.
L’espressione artistica restituisce ai pazienti la centralità della loro vita, ed offre agli operatori la possibilità di avere una visione più completa, realistica e sensibile dei loro problemi, bisogni e potenzialità. Perché siano proficue, le narrazioni non dovrebbero essere solo uno “sfogo liberatorio”. Il momento emotivo dovrebbe essere ri-elaborato dal paziente in sede di racconto. Le narrazioni non sono da confondersi con le denunce, sono la testimonianza di un’esperienza vissuta e rielaborata.
In conclusione, la medicina narrativa nasce dal presupposto che le attuali modalità di cura, fortemente condizionate dall’uso delle tecnologie e dalla fretta, abbiano decisamente ‘spersonalizzato’ il ruolo dei due principali attori in campo: il medico da un lato e il paziente dall’altro. In una medicina super-tecnologica resta troppo poco spazio per le emozioni e per la giusta rappresentazione e decodifica dell’esperienza di malattia.
La rappresentazione e narrazione di uno stato di malattia e sofferenza attraverso il racconto, i disegni, i sogni, le aspettative, la contestualizzazione sociale, culturale e familiare sono invece fondamentali per la definizione del migliore processo di cura. Partendo da queste premesse è stata fondata la Società italiana di Medicina narrativa, che non pretende di “cambiare rotta” rispetto all’enfasi posta sulla medicina basata sulle evidenze scientifiche di efficacia, che affronta la malattia in una prospettiva di popolazione e sulla base del rigore scientifico della verifica sperimentale e della riproducibilità, ma vuole integrarsi ad essa restituendoci la dimensione della unicità e specificità di ogni storia di malattia.

 

di Carlo Alfaro

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