Dal cinema alla psicologia. La teoria dell’attaccamento

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“Voi noterete che quando ci innamoriamo si ha uno stranissimo paradosso. Il paradosso consiste nel fatto che quando noi ci innamoriamo stiamo tentando il ritrovamento di tutte o di alcune delle persone a cui eravamo attaccati da bambini. E, per altro verso, chiediamo alla persona amata di correggere ognuno di quei torti che quegli originari genitori o fratelli ci hanno inflitto nella verde età. Cosicché l’amore contiene in sé la contraddizione tra il tentativo di tornare al passato e il tentativo di annullare il passato.”

Era il 1989 quando uscì il film “Crimini e misfatti” di Woody Allen, capolavoro da cui ho tratto questo monologo … ed era il 1988 quando John Bowlby, dopo circa trent’anni di studi, diede la definizione di “attaccamento”. Bowlby, con la sua Teoria dell’Attaccamento, ha dimostrato che l’essere umano, già dalla nascita, presenta una predisposizione innata a formare legami di attaccamento con le figure genitoriali, dette appunto figure di attaccamento.
La relazione con tali figure permette al bambino di formare diversi stili di attaccamento. Ognuno di questi stili sarà il risultato di una tipica modalità di interazione con le figure di attaccamento, e tale interazione si baserà anche sulle rappresentazioni che il bambino ha di sé e dell’altro, le quali, a loro volta, sono strutturate all’interno di quelli che Bowlby chiamò Modelli Operativi Interni (MOI).
Secondo Bowlby, infatti, gli individui, nel corso dell’interazione col proprio ambiente, costruiscono dei Modelli Operativi Interni (MOI), del mondo fisico e sociale che li circonda, che comprendono i modelli di sé-con-l’altro (Liotti, 2001), vale a dire dunque della relazione. Il concetto di modello operativo interno (MOI o IWM) fu introdotto da Bowlby nella teoria dell’attaccamento facendo riferimento alla psicologia cognitiva. I MOI includono componenti affettive, percettive, motorie e cognitive. Le relazioni con le persone significative vengono generalizzate in modelli operativi (di Sé, dell’Altro e di Sé-con-l’Altro) che, a partire dalle prime esperienze interpersonali, funzionano come base per l’assimilazione e l’elaborazione delle successive esperienze con l’Altro e quindi costituiscono la matrice delle future interazioni. Con l’aiuto di queste rappresentazioni il bambino regola il proprio comportamento sulla base delle aspettative formatesi nella comune storia di relazione, attivando piani e strategie già immagazzinati. I MOI sono, dunque, rappresentazioni mentali, costruite dall’individuo come strutture mentali che contengono le diverse configurazioni (spaziale, temporale, causale) dei fenomeni del mondo e che hanno la funzione di veicolare la percezione e l’interpretazione degli eventi, consentendogli di fare previsioni e crearsi aspettative sugli accadimenti della propria vita relazionale.
Da adulti quindi abbiamo tutti la tendenza a perpetuare situazioni già vissute, sia perché conosciute, sia perché sperimentate. Pertanto, anche nelle relazioni si riproporranno i modelli di relazione interiorizzati nell’infanzia grazie proprio ai modelli operativi interni, rispondendo nella maniera più probabile in cui ciascuno risponderà all’altro con il cambiare delle condizioni ambientali.
Infatti, lo stesso Bowlby ha scritto: “Nel modello operativo del mondo che ciascuno si costruisce, una caratteristica fondamentale è il concetto di chi siano le figure di attaccamento, di dove le si possa trovare, e di come ci si può aspettare che reagiscano. Analogamente, nel modello operativo del Sé che ciascuno si costruisce, una caratteristica fondamentale è il concetto di quanto si sia accettabili o inaccettabili agli occhi delle figure di attaccamento. Sulla struttura di questi modelli complementari l’individuo basa le sue previsioni di quanto le sue figure di attaccamento potranno essere accessibili e responsive se egli si rivolgerà a loro per aiuto. E […] dalla struttura di quei modelli dipendono inoltre la sua fiducia che le sue figure di attaccamento siano in genere facilmente disponibili e la sua paura più o meno grande, che non lo siano: di quando in quando, spesso, oppure nella maggior parte dei casi.” (Bowlby, 1973)
Concludo con un’altra riflessione dello stesso Bowlby (1979): benché la teoria dell’attaccamento sia nata con esplicito interesse ai primi anni di vita dell’essere umano, l’attaccamento è parte integrante del comportamento umano “dalla culla alla tomba” e dunque che lo stile di attaccamento formatosi durante l’infanzia rimane relativamente stabile durante lo sviluppo. Responsabili di questa permanenza risultano essere i MOI, modelli relazionali appresi attraverso il ripetersi delle interazioni con le prime figure significative.

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