Crescita italiana ostaggio del “credit crunch”

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Meno 44 miliardi: di tanto sono crollati l’anno scorso i prestiti delle banche alle imprese italiane. Questa è la stima fornita da Standard & Poor’s, ciò fornisce un’idea dell’asfissia finanziaria che soffoca l’industria e l’economia italiana. Il Centro studi di Confindustria ha dichiarato che “ormai rischiano di fallire anche le aziende sane” a causa di tale problema. Il denaro non circola e non alimenta come dovrebbe l’economia italiana nonostante l’alluvione di liquidità che la Bce (Banca Centrale Europea) ha immesso nel sistema bancario italiano: 140 miliardi. 

Tale fenomeno, denominato “credit crunch” tiene in ostaggio le prospettive di crescita, e non potrebbe essere altrimenti, vista la struttura del settore finanziario in Europa, di gran lunga dominato dalle banche a differenza di quanto accade negli Stati Uniti.

I crediti bancari negli Usa, infatti, rappresentano meno di un terzo del totale dei finanziamenti alle imprese, che per metà arrivano da assicurazioni e fondi pensioni e per il resto dai fondi di investimento. In Europa solo il Lussemburgo ha un modello simile a quello americano. In Germania le banche forniscono i due terzi del finanziamento all’economia, più o meno come in Francia. In Italia la percentuale sfiora l’85%, in Spagna il 90%. Con questi numeri, se il rubinetto si blocca, è inevitabile che i contraccolpi sulla crescita economica diventino ancora più letali.

Ma mentre il credito langue le banche italiane hanno fatto incetta di BTP, infatti, la liquidità iniettata da Draghi a fine del 2011 è finita tutta lì, nei Titoli di Stato. Lo stock di titoli in portafoglio è salito di ben 190 miliardi dai 209 miliardi detenuti nel 2011 ai 399 in pancia alle banche italiane ad oggi. Questi aiuti a “buon mercato” ricevuti dalla Bce sono stati investiti in attività finanziarie e non nell’economia reale.

Perché? Semplice. Le banche hanno sofferto il violento incremento delle “sofferenze” frutto del retaggio del credito “fiume” concesso negli anni d’oro, che oggi pesa sui bilanci, dato che le perdite su tali crediti malati erodono i ricavi bancari. Ovvio che in questo contesto tutti gli istituti di credito (chi più chi meno) hanno chiuso i rubinetti e preferito mettere i soldi in attività più sicure e lucrose: Titoli di Stato con rendimenti “sicuri” e sofferenze zero!

Molte banche hanno fatto acquisti strabilianti tanto da rendere certi istituti più delle grandi tesorerie che non delle normali banche che di mestiere erogano il credito.

Le massicce iniezioni di liquidità da parte della Bce hanno certamente rimosso il rischio di un fallimento bancario nell’eurozona: effetto sicuramente importante! La differenza fra il basso costo dell’iniezione di liquidità (pagata dalle banche all’1%) ed i rendimenti alti sui titoli di Stato di diversi Paesi europei ha indotto tutte le banche ad insistere con l’investimento sul debito sovrano, in particolare in Italia, perchè il rischio “Paese” forniva tassi molto interessanti.

L’enorme aumento del portafoglio di titoli pubblici posseduti dalle banche, però, solleva il timore che l’operazione di iniezione di liquidità abbia sì spento il fuoco del rischio fallimento delle banche in difficoltà, ma abbia però intensificato il legame fra banche e debito pubblico dei rispettivi Paesi, una delle cause principali delle violente turbolenze dei mesi scorsi.  Le sofferenze bancarie costituiscono un rischio da non sottovalutare, infatti, l’Abi rileva che nel 2013 a seguito del perdurare della crisi e dei suoi effetti, la rischiosità dei prestiti è ulteriormente cresciuta e sono aumentate le sofferenze nette, salite ai massimi dal 1999. L’associazione bancaria (ABI) rileva, infatti, come la domanda di credito sia penalizzata dalla crescita dei fallimenti delle imprese. Secondo gli ultimi dati elaborati nei primi otto mesi del 2013, inoltre, il numero delle domande di finanziamenti da parte delle imprese italiane è diminuito di -1,1% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.

Come se ne esce allora? Secondo gli esperti la risposta a tale domanda sta nell’integrazione e modernizzazione del settore bancario a livello europeo, insieme ad una ristrutturazione e ricapitalizzazione degli istituti, e quando e dove necessario, regole Ue sempre più omogenee e trasparenti.  La soluzione, sempre in base al parere degli esperti, è una ricetta che prevede i seguenti ingredienti: l’unione bancaria, la definitiva rottura del legame tra crisi finanziaria e crisi sovrana, supervisione unica del settore bancario alla Bce, un fondo di risoluzione delle crisi bancarie ed infine, la garanzia comune sui depositi dei clienti.

«Gli Stati Uniti ci hanno messo 60 anni per arrivare alla supervisione bancaria unica.

In Europa a tale traguardo dovremmo arrivarci in molto meno, visto che scatterà dall’estate del 2014, per quanto riguarda  il fondo di risoluzione ci vorranno dai 15 ai 20 anni secondo i tedeschi ma, nel frattempo, si potrà procedere con una formula mista, che prevede finanziamenti nazionali da parte dei Paesi interessati all’operazione (con decisioni all’unanimità) e finanziamenti europei targati Esm (c.d. “Fondo Salvastati”). Per ora, invece, resta molto lontana la “garanzia comune sui depositi”. È evidente che con questa unione bancaria, più di nome che di fatto, il recupero della fiducia perduta in Europa resterà in stand-by ancora per un po’ di tempo.

A ciò si aggiunga che Pascal Lamy, direttore generale Wto, ha dichiarato che il 90% della crescita mondiale nei prossimi anni avverrà fuori dall’Europa. Così ragiona anche Berlino, che non a caso rema contro i progetti di Mario Draghi, il quale sta provando, invece, a dare un po’ di respiro alle piccole e medie imprese in sofferenza. Anche in questo caso, dunque, meglio non aspettarsi grandi aiuti dall’Europa per uscire dal credit crunch: non arriveranno!

 

di Mario De Simone

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