L’importanza della comunicazione in Medicina e Pediatria

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La comunicazione è la base di ogni relazione, compresa la comunicazione medico paziente, dove si colora di ulteriori esigenze e dinamiche, data la complessità della materia e l’importanza assoluta che il valore “salute” ha per tutti. Si dice che “comunicare è un’arte”, e sicuramente questo è ancor più vero in Medicina, dove sembra a volte che medico e paziente parlino lingue diverse, che li pongono su piani di inconciliabilità e conflitto, invece di essere “alleati” per lo stesso scopo, sconfiggere la malattia. Ciò dipende essenzialmente dal fatto che medico e paziente vedono lo stesso problema da due punti di vista opposti, ciò che per il dottore è scontato, ordinario, comune, per il paziente può essere sconvolgente, drammatico, incomprensibile, o viceversa il paziente può ignorare che una determinata situazione appare al medico degna di preoccupazione. I vantaggi di un processo di comunicazione intenso e produttivo tra medico e paziente sono sia di facilitare il percorso diagnostico e terapeutico, sia ottenere da parte di entrambi maggiore soddisfazione e consenso, e tutto ciò incide positivamente sui risultati clinici complessivi. In tantissimi lavori è dimostrato che una felice interazione medico – paziente è un elemento primario per il successo della terapia, anche perché da essa dipende la compliance, cioè l’adesione del paziente alle prescrizioni del medico: se non si instaura un buon rapporto di fiducia, il paziente non eseguirà correttamente la cura. Scopo principale della comunicazione in campo medico è l’educazione dei pazienti, che consiste, secondo la definizione dell’OMS del 1998, “nell’aiutare il paziente e la sua famiglia a comprendere la malattia ed il trattamento, a collaborare alle cure, a farsi carico del proprio stato di salute ed a conservare e migliorare la propria qualità di vita”.
Nella comunicazione di un medico ci sono tre dimensioni che possono influenzare il giudizio e la fidelizzazione del paziente:

  1. La “capacità informativa”, che riguarda la quantità e la qualità delle informazioni che il medico è capace di fornire.
  2. La “sensibilità interpersonale”, che comprende i comportamenti messi in gioco dal professionista in campo affettivo e riflettono l’attenzione e l’interesse del medico per i sentimenti e le preoccupazioni del paziente, che avverte di essere riconosciuto come persona e non solo come malato.
  3. La “costruzione della collaborazione”, in cui il medico consente o invita i pazienti o i genitori a partecipare alla consultazione, chiedendo il loro parere e le loro proposte. I medici che permettono o incoraggiano i pazienti a partecipare attivamente alla costruzione del progetto di cure ottengono i risultati migliori.

Nel percorso di comunicazione medico paziente, affinchè i tre punti precedenti possano integrarsi e svilupparsi al meglio, il medico deve sforzarsi di capire il disagio dei pazienti, cercando di non trascurare i loro sentimenti e speranze, le paure più o meno inconfessate e i falsi miti o concetti sbagliati, in un’ottica di empatia con i propri assistiti. La comunicazione in Pediatria poi è ancora più delicata, perché il bambino è il paziente, ma l’interlocutore è rappresentato dai suoi genitori. Questo triangolo “bambino – genitori – pediatra” può generare interferenze, interpretazioni sbagliate e conflitti. I genitori sono gravati dalla responsabilità di prendere decisioni per il loro bambino, hanno aspettative che possono essere anche non realistiche, mediano le informazioni che ricevono con il loro vissuto e la loro esperienza o col “sentito dire”, hanno pregiudizi e preconcetti che possono essere di ostacolo alla comprensione delle problematiche del figlio.

In ogni processo di comunicazione si distinguono due fasi tra loro complementari: la comunicazione verbale e quella non verbale.
Quella verbale rappresenta la parte quantitativamente minore della comunicazione, ma le parole hanno un forte potere, sia quelle usate dal paziente che quelle dette dal medico: suscitano emozioni, creano giudizi. Le parole usate dal medico possono calmare o agitare, e quindi vanno usate con appropriatezza e cura, tenendo conto delle caratteristiche del paziente, della famiglia, del contesto culturale e di tutte le variabili coinvolte nello stato di malattia. Il medico deve saper calibrare il linguaggio sulle competenze culturali ed emozionali del paziente o del genitore, saper scuotere chi non comprende la gravità di una situazione, così come placare chi è vittima di un allarmismo ingiustificato e controproducente. Anche le parole del paziente sono determinanti: possono mettere fuori strada, banalizzare o aggravare i sintomi, irritare e confondere.
La comunicazione non verbale, invece, costituita principalmente dalla gestualità, dalla mimica facciale e dal tono della voce, rappresenta il momento più importante per il successo di una relazione inter-personale. Il medico dai segnali non verbali può cogliere indizi utilissimi all’inquadramento diagnostico, comprendendo il carattere e la personalità del paziente. Anche il medico a sua volta comunica col paziente col suo atteggiamento, ad esempio migliora l’empatia se annuisce spesso, esibisce una mimica facciale cordiale ed espressiva e attenta, inclina il busto/torace verso l’interlocutore, mantenendo un orientamento nella sua direzione, non tenendo braccia o gambe incrociate e rispecchiando le sue posture (eco posturale). Viceversa, è sgradevole per l’assistito essere guardato senza calore o con distrazione e frettolosità o distacco. Sono state sviluppate delle tecniche psicologiche come il FACS (Facial Action Coding System: sistema di misurazione dei movimenti facciali) per lo studio del linguaggio non verbale delle persone con cui ci si interfaccia, molto utili per gli operatori sanitari: comprendere il paziente significa saperlo aiutare. Il FACS si basa sul presupposto che le sette emozioni di base quali sorpresa, paura, angoscia, disgusto, disprezzo, tristezza e felicità sono registrate da cambiamenti dei muscoli della fronte, delle sopracciglia, delle palpebre, delle guance, del naso, delle labbra e del mento, per cui dallo studio del volto si possono decifrare le reali emozioni di chi abbiamo di fronte, così come distinguere il sorriso emozionale (spontaneo) da quello non emozionale (di convenienza).

Al di là degli studi ultra-specialistici, credo sia fondamentale, nell’approcciarsi agli altri, saperli “guardare”: con simpatia, con tolleranza, con amore. Perché capirli, è un po’ abbracciarli, carezzarne l’anima.

 

di Carlo Alfaro

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