Dante Alighieri, chi era costui?

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Settecentocinquant’anni ma non li dimostra. Nacque, infatti tra maggio e giugno del 1265, il nostro più grande poeta, inizio e punto di riferimento costante di letterati, poeti, scrittori, pittori, scultori, artisti di ogni scuola, e padre di quella Italia tanto amata (come l’ingrata Firenze), che non esitò a chiamare “serva” e “di dolore ostello”.
Da allora, dal 1300, quando scrisse la sua opera monumentale, La Divina Commedia, le cose non sembrano cambiate sostanzialmente, se in certi passaggi della storia, l’Italia è (oppure dà l’impressione) non “di donna di provincie ma bordello”.
Non solo l’Italia, ma l’uomo, la sua natura più profonda, non pare mutata o modificata, nonostante i progressi dal punto di vista culturale e scientifico. Sotto la patina o l’intonaco o le maschere sempre nuove che ha appreso ad indossare, l’uomo continua a camminare nell’inferno dei suoi vizi e dei suoi difetti, con le sue crudeltà, le sue violenze, le sue ingiustizie, gli stessi efferati delitti, soprattutto sulla parte più debole (bambini, donne, sottomessi). E da ogni parte, se si ascolta bene, si levano ancora “diverse lingue, orribili favelle, – parole di dolore, accenti d’ira, – voci alte e fioche, e suon di man con elle.” Queste “facevano un tumulto, il qual s’aggira – sempre in quell’aura sanza tempo tinta, – come la rena quando turbo spira.” Si tratta della lunghissima e interminbile fila degli ignavi, di coloro “che mai non fur vivi”, la più numerosa della anime infernali, che insegue un’insegna senza alcun valore, cioè il nulla, “e dietro le venia sì lunga tratta – di gente, ch’io non avrei creduto – che morte tanta n’avesse disfatta.”
Sembrerebbe che per l’uomo non vi sia alcuna speranza. Se ci si ferma e adagia nell’inferno certo che no. Non bisogna dimenticare che la “Commedia” è costituita di altre due cantiche, nelle quali la grande guida indica all’umanità alcune vie d’uscita dalla “bufera infernal che mai non resta”. Ma già nell’Inferno egli dà un’indicazione ben precisa a coloro che vogliono uscire “dal pelago alla riva”. “Temer si dee di sole quelle cose – c’hanno potenza di fare altrui male; – dell’altre no, ché non son paurose.”
Tutti i grandi saggi di ogni tempo, da Buddha a Socrate, a Gesù, fin giù a Ghandi, Teresa di Calcutta e oltre, hanno affermato lo stesso principio: il male è fondamentalmente fare del male agli altri. Ma in Dante Alighieri c’è, credo, qualcosa di più. Ovvero egli dice con chiarezza, nel Purgatorio, che se non si compie uno sforzo serio e costante di indirizzarre le passioni e i difetti a scopi non negativi, nonostante si avverta spesso, ma inutilmente, la necessità di un mutamento di rotta, dall’inferno non si escirà mai. Allora egli mostra come trasformare la rabbia in sete di giustizia, l’invidia in cura di sè e così via. Così procedendo sicuramente si giungerà nel paradiso. Che per il Poeta è certamente quel luogo spirituale e trascendente dove egli immagina di vedere, nel tempo di un fulmine, la luce divina. Ma il paradiso è qualcosa di più. Lo hanno scoperto gli americani Richard Schab & Bonney Gulino Schaub, i quali nel loro lavoro “Il metodo Dante”, edito in Italia da Piemme, hanno identificato il paradiso con la bellezza e con l’amore.
“La forza d’amore insorge dentro di voi nei momenti più semplici, e potete coltivare la capacità interiore di aprirvi ad essa sempre di più. Con il tempo vi accorgerete che non siete voi a scoprire tale forza, ma che essa scopre come esprimersi attraverso voi. È l’energia universale che ogni individuo ha la responsabilità di portare nel mondo.”

 

di Domenico Casa

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